"Non mi dir, Bell' Idol mio" - Donna Anna
Dramma giocoso in due atti
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L' atmosfera oppressiva si protrae nella "Camera tetra" in cui Donna Anna e Don Ottavio, ormai essi stessi quasi simulacri di morte, meditano ancora sulla vendetta e sull' illusione del loro triste amore, la grande aria di Donna Anna "Non mi dir, Bell' Idol mio", preceduta da un recitativo accompagnato non meno che scultoreo, ha il sapore di un definitivo congedo dalle speranze di questo mondo. Nient' affatto esiziale per la costruzione architettonico complessiva, essa ha la funzione di separare la scena del cimitero dalla scena ultima non solo per motivi di banale verosimiglianza drammatica (permettere a Don Giovanni di rincasare) ma anche per accrescere l'attesa della inevitabile resa dei conti, incrementando la tensione con un episodio apparentemente estraneo, se non straniante: curioso che molti commentatori illustri, a cominciare da
Hector Berlioz, l'abbiano giudicata addirittura con indignazione. E siamo così all'epilogo (finale secondo, scena XIII). Qui si pone subito un problema non secondario: in che rapporto di tempo sta questa scena con quella del cimitero? L'invito a cena fatto alle due della notte è per quella notte stessa, se Don Giovanni dovrà finir di ridere "pria dell'aurora"? Il libretto non ce lo dice. Ma la risposta è semplice: con l'atto sacrilego commesso da Don Giovanni il tempo, il suo tempo, si è fermato, e la scena finale, che può essere anche vista come un'allucinazione, si svolge in un tempo non più reale, ma mitico, il tempo eterno del giudizio universale. Nella sala preparata per mangiare ("Già la mensa è preparata"), Don Giovanni
crede di vivere ancora nel presente (infatti i musici suonano alla sua tavola, per allietare la sua ultima cena, tre estratti di opere contemporanee, la terza delle quali è una citazione dell'ultimo successo di Mozart stesso), ma in realtà è già catapultato, senza ch'egli lo sappia, in una dimensione sovratemporale, o meglio atemporale. Ed è proprio questa proiezione a conferire alla scena, dopo l'estremo, vano appello di Donna Elvira - "cangiar vita"! - un carattere insieme irreale, eroico e mitico, avvolgendo il cavaliere in un'aura metafisica che lo estranea dalla sua più propria facoltà: quella di bruciare il tempo senza farlo mai arrestare.non solo per motivi di banale verosimiglianza drammatica (permettere a Don Giovanni di rincasare) ma anche per accrescere l'attesa della inevitabile resa dei conti, incrementando la tensione con un episodio apparentemente estraneo, se non straniante: curioso che molti commentatori illustri, a cominciare da Hector Berlioz, l'abbiano giudicata addirittura con indignazione.
E siamo così all'epilogo (finale secondo, scena XIII). Qui si pone subito un problema non secondario: in che rapporto di tempo sta questa scena con quella del cimitero? L'invito a cena fatto alle due della notte è per quella notte stessa, se Don Giovanni dovrà finir di ridere "pria dell'aurora"? Il libretto non ce lo dice. Ma la risposta è semplice: con l'atto sacrilego commesso da Don Giovanni il tempo, il suo tempo, si è fermato, e la scena finale, che può essere anche vista come un'allucinazione, si svolge in un tempo non più reale, ma mitico, il tempo eterno del giudizio universale. Nella sala preparata per mangiare ("Già la mensa è preparata"), Don Giovanni crede di vivere ancora nel presente (infatti i musici suonano alla sua tavola, per allietare la sua ultima cena, tre estratti di opere contemporanee, la terza delle quali è una citazione dell'ultimo successo di Mozart stesso), ma in realtà è già catapultato, senza ch'egli lo sappia, in una dimensione sovratemporale, o meglio atemporale. Ed è proprio questa proiezione a conferire alla scena, dopo l'estremo, vano appello di Donna Elvira - "cangiar vita" - un carattere insieme irreale, eroico e mitico, avvolgendo il cavaliere in un'aura metafisica che lo estranea dalla sua più propria facoltà: quella di bruciare il tempo senza farlo mai arrestare.